Non esiste riunione, organo, contesto associativo – dal quale non arrivino lamentele sull’assenza di partecipazione. Nelle nostre associazioni per esempio non ci sono (più) i giovani, non riusciamo a garantire un adeguato ricambio generazionale, le persone non frequentano più i nostri luoghi associativi…
In effetti queste lamentele pongono i motivi dell’assenza di partecipazione sempre fuori di “noi” (noi come i nostri circoli, noi come classe dirigente) e sembrano non mettere in discussione un modo di essere e di fare associazionismo di promozione sociale che rappresenta i mondi dell’associazionismo e del sindacato. Un modo di fare che è esattamente il contrario del “saper essere” di una associazione di promozione sociale di cui c’è bisogno nel Paese.
Essere associazione di promozione sociale significa nutrirsi dei bisogni dei cittadini, soprattutto dei più deboli, essere noi stessi gruppo dirigente tra i cittadini più deboli, portare noi stessi sulla nostra carne viva le piaghe della sofferenza sociale. Essere costituiti, nella nostra base sociale di persone che vivono le difficoltà che intendiamo riparare e denunciare.
E invece la malattia più grave del terzo settore è la rappresentanza senza mandato.
Succede così che intendiamo occuparci di immigrazione, ma lo facciamo erogando servizi agli immigrati, vogliamo occuparci di povertà e nel migliore delle ipotesi – quando non ci limitiamo a promuovere roboanti tavoli e pur importanti proposte politiche – organizziamo servizi per i poveri, forniamo consulenti e dirigenti nel Progetto Policoro al servizio dei giovani disoccupati ma non riusciamo a pensare le Acli come luogo del loro protagonismo. Facciamo cooperazione erogando servizi per portatori di handicap ma non organizziamo dentro i nostri circoli la partecipazione dei portatori di handicap e delle loro famiglie.
Insomma: per essere corpi “intermedi” abbiamo molto più la “testa” nello Stato (come concessionari di servizi fiscali e previdenziali, come erogatori di servizi alla persona attraverso cooperative ed associazioni) che i “piedi” dentro la società.
Ritengo che questo andazzo sia insostenibile ed un cambiamento obbligato se non vogliamo vederci definitivamente spazzati via perché stiamo perdendo la nostra peculiare funzione sociale. I 70 anni di storia che l’associazionismo democratico e le organizzazioni sindacali hanno alle spalle, e il loro contributo alla crescita della Repubblica non ci garantiscono né la sopravvivenza né la significatività per i prossimi dieci anni.
Il Paese non ha bisogno di organizzazioni di quadri, e neanche di marchi di erogatori di servizi (pagati dallo Stato, pagati dai cittadini, forniti grazie all’azione volontaria dei soci). Ciò di cui abbiamo tutti bisogno è diventare luoghi in cui la promozione sociale (la promozione della partecipazione, l’empowerment di cittadinanza) siano la motivazione costitutiva e producano senso di marcia e movimento.
La strada del recupero dell’”essere” associazioni di promozione sociale passa per il riprendere, con umiltà, un “lavoro di strada” che passa per l’ascolto delle persone, per la co – costruzione della rappresentazione dei problemi, la co-costruzione della rappresentanza e la co- costruzione delle risposte.
Passa per il dare la vita, con le persone più che per le persone. Passa per la testimonianza.
P.s.
P.s.
Le Acli che questo gruppo dirigente sta cercando (faticosamente) di costruire aspirano ad essere così. E ti invito a condividere questa sfida!