comunità, psichiatria, servizi sociali, servizi sociosanitari, violenza di genere

Se la specializzazione dei servizi sociali non è l’unica risposta

Di recente si fa avanti una certa consapevolezza del fatto che l’organizzazione dei servizi sociosanitari e assistenziali si fonda su di un assetto esclusivamente professionale, laddove, invece, le risposte più interessanti ad alcuni problemi sociali sono risposte che nascono dalla attivazione dalle comunità: comunità che si prendono cura delle loro stesse sofferenze attraverso risposte non specifiche e non professionali.


Quando pensiamo all’intervento su di una problematica sociale o sociosanitria ci concentriamo sulla risposta professionale specialistica che lo fonda. Di fronte, cioè, ad una problematica sociale o sanitaria (ad esempio:il disagio psichico) concentriamo risposte sanitarie fondate sul mondo dei professionisti che quel problema lo seguono per mestiere
Ci fondiamo – ci viene di fare così – su risposte e professionisti specializzati e professionali: specializzati, perchè il loro compito professionale è di operare specificamente in relazione a quella problematica, professionali perchè lo fanno “di mestiere”.
Ora, un intervento sociale o sociosanitario – ma, ritengo, anche sanitario – non funziona se si fonda soltanto su soggetti professionali e e specializzati. 
Ci sono almeno due mondi che non vengono adeguatamente inerpellati che al contrario sono non specializzati e/o non professionali. 

Un primo ambito di soggetti che devono essere coinvolti è quello dei soggetti professionali e non specializzati. Dentro una prospettiva comunitaria prendersi carico di un problema sociale è impensabile senza fare riferimento ai soggetti che ne hanno interesse per lavoro ma non in maniera specializzata. Un centro antiviolenza, ad esempio, deve costruire la propria azione sociale in relazione ai soggetti che sono coinvolti perchè lo fanno per lavoro (professionali) ma non in maniera specializzata, in relazione all’attività di presa in carico sociosanitaria della violenza nei confronti delle donne. Ad esepio, ll maresciallo della stazione dei carabinieri che riceve le denunce, l’infermiere dell’ospedale che è all’accettazione del pronto soccorso,  l’insegnante che insegna al figlio minore della donna vittima di violenza sono i primi riferimenti di un servizio sulla violenza di genere e non mi pare che questo genere di servizi dia normalmente loro l’attenzione che sarebbe utile.

Ma c’è un secondo ambito di soggetti che sono intorno ai servizi sociali e sanitari, i soggetti non professionali e non specializzati. 
E’ inconcepibile ad esempio, operare nell’ambito della presa in carico delle persone con bisogni psichiatrici se non si coinvolgono i soggetti che svolgono un ruolo dentro quella comunità in maniera non professionale e non specializzata: il mondo del volontariato, il mondo dell’associazionismo, il mondo del vicinato.
Nel caso della psichiatria, c’è una forte consapevolezza del ruolo che hanno le dinamiche sociali nel produrre segregazione ed istituzionalizzazione, ma poi gli stessi servizi sono insufficienti nella loro capacità reale di attivare reti. Ben inteso: non solo reti “di solidarietà” – come può essere l’associaizone di volontariato che viene a trovarci dentro la struttura residenziali per pazienti psichiatrici che la mia cooperativa gestisce ad Ercolano per trascorrere del tempo libero sereno e “normale”.
Ma anche 
il mister del calcetto, che incontra fuori dall’orario scolastico l’adolescente che comincia a manifestare qualche problema, in un ambiente meno strutturato di quello scolastico, o il presidente dell’associazione di volontariato che organizza la pulizia delle spiagge ad inizio stagione.

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