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Tra rappresentanza e rappresentazione

Il mondo della pedagogia professionale si trova in una fase davvero critica. che però ha il pregio di insegnarci qualcosa.

Una delle cose che ci ha insegnato questa fase suona più o meno così: un poco di attenzione lessicale non sarebbe una cattiva idea per coloro che hanno la pretesa di rappresentare i pedagogisti e gli educatori professionali socioopedagogici.

Perchè il problema lessicale (e non solo) per tutti coloro che si occupano di rappresentanza nel mondo della pedagogia professionale è che  rappresentare è un verbo polisemico. 

Come ormai tutti sanno, il mondo della pedagogia professionale si è infilato dentro una fase pericolosissima nel momento in cui è stato colpito da una circolare dell’ordine delle professioni sanitarie che, pur con l’innocui compito dichiarato di regolamentare l’elenco professionale di educatori professionali sanitario, ha prodotto una mazzata (forse mortale) nei confronti di tutta la categoria degli educatori professionali sociopedagogici.
Di fronte a questo fatto, che abbiamo giudicato gravissimo, l’Apei ha fatto quello che era doveroso: ha gridato, reagito in maniera scomposta, messo in campo le azioni necessarie per adire le vie legali perchè di fronte ad un pericolo imminente si lancia l’allarme per evitare gravi conseguenze.
Se ti picchiano non stai zitto sperando che prima o poi il violento si rompa le palle.

Insomma, abbiamo fatto casino. Perchè rappresentare non significa (solo) fare rappresentanza. Non significa parlare a nome di un certo numero di persone: sia che siano qualche migliaio di professionisti (nel caso dell’Apei) o qualche centinaio (nel caso delle altre associazioni professionali del panorama pedagogico).

Rappresentare – che poi è il principali compito di una associazione professionale in un frangente di questo tipo – è fare rappresentazione:  mostrare le gioie e i dolori della categoria. 
E mentre la categoria prova disgusto, paura tristezza, rabbia, frustrazione, sgomento tu non puoi stare lì ad aspettare senza fretta qualche onorevole che pure ti rassicura che farà tutto lui. Nè vale sperare che “andrà tutto bene non può succedere niente di male” come cantavano gli 883 qualche anno fa.

Soprattutto, non si può (non è serio, non è responsabile, non è il compito che questa fase assegna) stare lì con la bacchetta in mano manco fossi la maestra dell’asilo che rimprovera all’Apei di essere una associazione scostumata che “no, no, no” si mette a strillare mentre è più giusto stare tutti composti. 

Ecco, alcune associazioni del panorama pedagogico in questa fase, forse per differenziarsi e dall’Apei, hanno fatto la maestrina di buone maniere. Sono stati molto attenti a fare comunicati con la bacchetta in mano, salvo adesso farci sapere che se dopo Natale (senza troppa fretta) non succederà qualcosa tra un panettone e uno struffolo batteranno un colpo (forse).

Un altro fatto. Anche questa cosa di fare i comunicati citando soltanto alcune organizzazioni e non altre, ignorando la presenza dell’organizzazione che da sola rappresenta oltre la metà dei pedagogisti associati (l’altra metà è in altre 7 organizzazioni) è strana. Onestamente a me non fa male e non fa rabbia, ma trovo che qualifichi chi la fa. 

No, devo dire agli amici di queste associazioni professionali: ragazzi, la politica professionale si fa in tutt’altro modo. Si affrontano di petto le difficoltà, si urla, si evidenziano le contraddizioni, si lanciano slogan quando serve. Perché se questa categoria ha un punto di forza risiede nell’essere un popolo. 
E se tu il tuo popolo non sei in grado di rappresentarlo – nel senso della rappresentanza e nel senso della rappresentazione – è meglio evitare di infilarcisi, perchè la situazione è già molto compromessa.

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