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I “nonostante” e i “purché” del lavoro ben fatto

Trovo molto interessante il lavoro che Vincenzo Moretti porta avanti, ormai da alcuni anni sulla prospettiva etico-trasformante del lavoro ben fatto. Quando ne ho avuto l’occasione, ho chiesto a Vincenzo di partecipare ad una attività di formazione per adulti sulla partecipazione e sulla politica. In questo articolo ne parla lo stesso Vincenzo sul suo blog Nova de Il Sole 24 ore.

Trovo che quella del lavoro ben fatto sia una prospettiva affascinante sul piano personale e straordinaria sul piano sociale. A tutti è evidente che sul piano personale lavorare in maniera seria e piena, senza risparmiarsi ci rende più umani; sul piano sociale tutti capiscono che se la persona o l’organizzazione con cui ci si relaziona (da utente, da consumatore, da terzo) si riferisce al lavoro ben fatto, tutto funziona meglio. L’autobus è più puntuale, il negoziante è più cortese e paziente, il software che si utilizza è più performante, il funzionario del servizio sociale più accogliente. Tutti sentono la potenza del lavoro ben fatto e a tutti è immediatamente evidente come tutti ci guadagnino.

Nella vita reale, però, quello che accade è che quella che potrebbe apparire una naturale propensione al fare bene le cose (se ci guadagnano tutti…) diventa una prospettiva difficile da attuare: lavorare bene diventa faticoso, come se si lavorasse controcorrente, e talvolta in condizioni impossibili. Le condizioni, appunto. Siamo uomini, e viviamo in un contesto che pone il nostro agire sottoposto a condizioni. I luoghi di lavoro possono essere insani, tossici, disfunzionali; la maggior parte di noi riscontra nei propri luoghi di lavoro che sembra che siano appositamente costruiti per essere produttori di lavoro fatto male. Molti di noi lamentano di stare male nei loro luoghi di lavoro e sentono che questo “stare” male è la causa principale del “fare” male.

Attenzione, però: essere consapevoli delle condizioni non significa accettarle come condizionamenti, ossia come deterministiche cause dell’agire, nel senso che non è detto che il nostro agire sia deterministicamente frutto di quello che ci arriva dall’ambiente. Tutto il contrario: dobbiamo essere consapevoli delle condizioni per affrontarle e agire il lavoro ben fatto nonostante le condizioni in cui ci troviamo talvolta lo rendano più difficile. Per questo motivo mi è parso importante affrontare il tema del lavoro ben fatto dalla prospettiva dei nonostante.

  • Lavoro ben fatto NONOSTANTE CHE NON TI VENGA RICHIESTO da chi sovrintende al tuo lavoro. Molti di noi sperimentano, perlopiù nelle grandi burocrazie pubbliche e private, la mancanza di controllo e di interesse per la qualità di quello che viene erogato agli utenti. Spesso queste organizzazioni sono solipsisticamente chiuse dentro se, e vi si sperimenta una difficoltà oggettiva a fare bene. Sembra che tutto sia chiuso dentro procedure che hanno perso il proprio senso originario e diventano una punizione per chi le agisce e chi le subisce. In queste burocrazie, in cui tutto è schiacciato sulla cultura organizzativa dell’adempimento invece che sulla cultura organizzativa del risultato, chi vi lavora impara presto a fare quello che gli viene chiesto, senza chiedersi che senso ha, per se e per gli altri. Persino si impara che chiedersi i perchè è pericoloso, e può essere foriero di problemi. Siamo adulti e ben centrati (siamo adulti e ben centrati?) e non ci fermiamo alle condizioni, ma teniamo conto di queste quando agiamo nella realtà. Riconoscere le condizioni (tossiche, dannose, ecc) non ci esime dall’operare bene, ma essere consapevoli che in qualunque condizione è possibile ritagliarsi spazi di lavoro ben fatto, sempre che e ne abbia la consapevolezza dell’importenza, per se e per gli altri. Ed ecco i miei nonostante:
  • Lavoro ben fatto NONOSTANTE IN ALCUNI CASI LA VERIFICA DELLA QUALITà SIA DIFFICILE. Ho l’impressione che sia più facile perseguire un lavoro ben fatto se si fa riferimento ad un lavoro manuale che ad un lavoro a contenuto relazionale o intellettuale. La maggior parte degli esempi cui fa riferimento Vincenzo Moretti sono del tipo di una ringhiera ben smerigliata, un mobile solidamente costruito o un prato falciato a regola d’arte, perchè i fattori in gioco sono molto minori, e l’oggetto (e il prodotto) del lavoro è sempre presente davanti agli occhi di chi ci ha lavorato o di chi deve servirsene. Inoltre, la qualitù del lavoro manuale dipende da (relativamente) pochi fattori, che sono in maniera relativamente facile individuabili: le condizioni della ringhera prima di lavorare, gli attrezzi che hai a disposizione, il tempo che ti viene dato. Ci sono professioni in cui il controllo interno è molto più difficile. Un educatore o un assistente sociale operano con una famiglia secondo modalità che hanno l’obbligo di ripensare di volta in volta, e si trovano a misurarsi, non solo – come nel caso di chi vuole riverniciare la ringhiera – con le condizioni iniziali della famiglia, ma si misurano con la sfida della liberà. L'”oggetto” e il “prodotto” del lavoro dell’educatore non dipende dalle sole condizioni di partenza e dal lavoro del professionista. Vero è che la prospettiva del lavoro ben fatto è una prospettiva centrata sul lavoratore e non sull’oggetto (non è tanto quello che fai, quanto come lo fai), ma resta il fatto questo confronto con l’oggetto rende più difficile anche accorgersi se si sta lavorando bene.
  • Lavoro ben fatto NONOSTANTE LE PERSONNE INTORNO A TE OPERINO IN MANIERA DIFFERENTE. La mancanza di un ambiente volto al lavoro ben fatto non è un motivo sufficiente per non lavorare bene. E’ una problematica comune a molti luoghi di lavoro, ma sopratuttutto le grandi organizzazioni – quelle pubbliche in particolare – sembrano fatte apposta per fare girare a vuoto le persone, consumando le energie senza che possano esprimere il meglio della propria umanità. Gli ambienti hanno questo potere terribile, che è ovviamente motivo di infelicità. Sembra che viga una specie di legge di Murphy del lavoro mal fatto sulla base della quale, in alcuni luoghi, la cultura organizzativa congiura perché “se qualcosa può essere fatto male, lo farà”: una specie di Legge di Murphy del burocrate, che racconta di come certe volte il lavoro ben fatto possa diventare difficile e di come nell’ambiente si creino condizioni per cui sono gli altri la giustificazione del tuo poco lavoro ben fatto (per inciso: qui trovi una mia personale legge di Murphy del funzionario pubblico)
  • Lavoro ben fatto NONOSTANTE L’AMBIENTE IN CUI LAVORO SIA TOSSICO O PRODUTTORE DI INFELICITA’ molti di noi sperimntano ambienti di lavoro in cui non si sta bene: ambienti di lavoro in cui regna l’inimicizia e la malevolenza, e in cui non si sta bene. La condizione del non star bene sembra in questi ambienti la giustificazione del fare male. In effetti è vero che in queste condizioni e in altre analoghe è più difficile il lavoro ben fatto. E’ più facile laddove si sta bene, laddove il lavoro ben fatto è una prospettiva condivisa, dove è cultura diffusa, a partire dalla dirigenza; è più facile come dicevo sopra nei lavori manuali. Eppure, non possiamo aspettare che accada perchè è l’impegno dei singoli che determina le condizioni degli ambienti, e privarsi di impegno dentro un “lo farò quando lo vedrò” rende gli ambienti soltanto un poco meno umani, un poco meno funzionali; in definitiva le persone un poco più infelici.

Infine, desidero concludere questo piccolo ragionamento sui nonostante con un accenno al purchè del lavoro ben fatto. La considerazione per cui il lavoro ben fatto ti compete sempre e comunque va però accoppiata ad un secondo ordine di considerazioni. Siamo uomini e donne che si misurano con molti aspetti della vita, e il lavoro (anche inteso in maniera estensiva, come fa Vincenzo Moretti di “fare bebe le cose”: lavoro ben fatto anche quando ti lavi i denti) non è l’unica dimensione umana. Ci sono gli affetti, c’è (il legittimo) ozio, c’è il riposo, c’è la relazione, per citarne alcune: perchè l’uomo non è il suo lavoro, ma il lavoro è una parte importante dell’essere (e farci) umani. Parafrasando una espressione di San Giovanni Paolo II “il lavoro ben fatto è per l’uomo, e non l’uomo per il lavoro ben fatto”. In altre parole, anche nel lavoro ben fatto ci vuole equilibrio e una certa solidità personale perchè sia declinato in modo da fare bene alle persone e alle comunità.

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