Accade che ti chiamino ad un colloquio per educatore in una struttura educativa per minori. Mando il curriculum e mi chiamano, e mi sento persino grato che abbiano preso in considerazione il mio profilo, per quanto sia consapevole del fatto che si tratta di un curriculum di grande valore.
Faccio i miei cinquanta minuti in macchina e raggiungo la sede della cooperativa, salgo quella scala che porta fin su agli uffici e mi trovo a parlare con un incaricato della cooperativa che presto scopro essere il presidente. Comincia col chiedermi se ho la macchina, perché talvolta è necessario accompagnare i ragazzi a fare delle visite mediche ed è necessario usare l’auto propria. Gli rispondo di si, che l’auto ce l’ho e che dovrei comunque raggiungere il luogo di lavoro in macchina perché per raggiungere il comune in provincia di Caserta dove si trovano non esistono mezzi pubblici
“Ah, abiti lontano”, osserva. E anche se non capisco bene quale sia il problema annuisco. Poi mi chiede se sono disposto a fare le pulizie perché in quella struttura, loro hanno, si, una persona che fa le pulizie, ma non va tutti i giorni in struttura, e bisogna tenere la casa pulita.
Sulle pulizie so bene che non è il mio compito. Le pulizie in se non sarebbero un problema; il problema è che uno vorrebbe fare il proprio lavoro e quello è un brutto segnale di ridotta attenzione alla funzione educativa di una struttura di accoglienza per adolescenti.
Anche su quello rispondo di si, e provo a girarla in modo che sia accettabile per un professionista. Dico che mi aspetto che in una comunità alloggio la funzione pulizie della casa sia anche essa una funzione educativa, che deve coinvolgere tutti i ragazzi ospiti. Argomento che l’assunzione di responsabilità, in famiglia come in comunità alloggio è un obiettivo educativo di primo piano, e in particolare c’è un senso educativo nella cura degli spazi comuni.
In cuor mio però so benissimo che non stiamo parlando di progetto educativo e di transizione verso l’età adulta di adolescenti. Stiamo parlando di una cooperativa che vuole che faccia le pulizie perché deve risparmiare. Di una cooperativa che non ha idea della professionalità che esprime un educatore professionale, del carico emotivo e cognitivo che comporta lavorare con adolescenti, della professionalità che un educatore serio esprime. Di una cooperativa che non ha la minima idea di di quello che può significare – per la qualità del servizio, per il percorso di adultità degli ospiti adolescenti della struttura – scegliere una persona incapace, senza esperienza e senza titolo al posto di una che ha i numeri per ricoprire la posizione.
Ma il tizio ha ripreso ha parlare. Mi racconta di come sono organizzati, delle difficoltà di una struttura appena avviata con la storia evergreen dei comuni che pagano in ritardo. Ovviamente sono consapevole che i pagamenti in ritardo dei comuni siano una piaga di questo settore, e ritengo che questo debba essere un problema di chi gestisce le strutture e degli educatori, sul quale dovremmo battagliare tutti, operatori, sindacati, imprese e cittadini. Ma il punto è che il problema dei tempi non può essere sempre e solo un problema del lavoratore, che non è giusto aspettare i pagamenti per 9, 12 o 18 mesi come accade a qualcuno di noi. C’è un livello oltre il quale una impresa seria (e una cooperativa sociale è un’impresa) si assume il costo di questa inefficienza dello stato e accede al credito bancario, non impone credito forzato per quote cospicue del proprio bilancio ai dipendenti.
In questa disamina del settore il presidente poi passa agli operatori che non prendono sul serio il proprio lavoro e li lasciano da un momento all’altro. Mi verrebbe da spiegargli che il contrasto del turn over è denuncia un malfuonamento di qualcosa: della selezione del personale perché evidentemente scegli le persone sbagliate perché ad esempio incapaci di assumersi responsabilità, o di lavorare con ragazzi ‘difficili’, oppure perché semplicemente non li paghi adeguatamente, e ad un certo punto uno si fa i conti in tasca e preferisce andare a lavorare alla cassa del supermercato sotto casa per la stessa retribuzione e con meno responsabilità giuridiche e soprattutto morali sulla crescita di ragazzi che hanno bisogno di essere aiutati a crescere.
All’improvviso gli balena in mente che gli servirebbe un coordinatore e mi chiede se sarei in grado di coordinare la struttura, cosa che evidentemente sarei ampiamente in grado di fare e persino lascia intravedere l’esigenza di assumere un coordinatore.
Il momento clou è arrivato, e il mio interlocutore introduce l’argomento economico. Lo fa all’improvviso, senza un apparente connessione con quanto c’era prima. Noi paghiamo 25 € a turno. A turno? In che senso? “Nel senso che se lavori il turno di mattina, quello di pomeriggio o quello di notte sempre 25 € paghiamo”.
Ora, a parte che quanto una cooperativa sociale deve pagare un lavoratore non lo decidi tu ma il contratto collettivo nazionale, brutto stronzo. Ma che cavolo è la retribuzione a turno?
La struttura, mi spiega, ha una organizzazione del lavoro in tre turni: il turno di mattina, quello di pomeriggio – sera e notte. Ogni due settimane il presidente – coordinatore stabilisce i turni, garantendo una rotazione delle persone che lavorano in struttura. “è semplice”, mi spiega.
E quindi – gli chiedo, non riuscendo a fare dei conti a mente mentre sto parlando con lui – quanto viene a mese?
Se lavori 20 turni in un mese vieni pagato 500 euro, se lavori – che so io -22 turni vieni pagato (si fa il conto a mente) 550 euro.
Dipende da quanti turni hai fatto nel mese, ma sono tra i 500 e 600 € al mese. Devo dire – purtroppo – che ho ben presente che nel mercato del lavoro della città metropolitana di Napoli e della provincia di Caserta 600 € è la retribuzione che applicano molte cooperative. Ma la retribuzione “a turno” non la avevo mai sentita, mi spiazza un poco. Non me l’avevano mai messa così.
Gli spiego che per meno di 600 € non sono disposto a lavorare, e che dato che ho un curriculum di tutto rispetto e pure un’età avrebbero dovuto evitare di chiamarmi. Lo faccio con la pacatezza che contraddistingue il mio modo di essere uomo e professionista.
“Questo è il mercato” mi dice come se parlasse di cose che esulano dalla sua responsabilità, come se spiegasse che oggi piove. Pazienza, piove, che posso farci? Il mercato del lavoro è questo: che posso farci?
Saluto e me ne vado a casa nel più breve tempo possibile, ma nel viaggio di ritorno mi sento molto arrabbiato ed avvilito.
La cosa che mi fa più rabbia è che ha ragione lui, che i 900 € che mi ero prefissato come limite sotto il quale non sarei andato per un impiego orario (di molto) superiore al full time sono un miraggio per molte cooperative.
Sapevo bene che anche quella soglia minima che mi ero dato sono significativamente aldisotto di quanto preveda la retribuzione prevista dal Contratto collettivo nazionale ma per rialzarmi da una fase difficile sarebbero andati bene anche quelli. Mentre torno ripenso al colloquio e mi torna in mente di quando il mio interlocutore parlava dei colleghi che stanno un poco e poi smettono di lavorare per lui o a quanto evidenziava che preferisce far lavorare gente che abita in zona.
O di quanto si era lamentato che il comune – guarda un poco! – chiedesse educatori laureati e lui non riusciva a trovarne. In questo senso – forse – la cosiddetta “Legge Iori” ha imposto dei limiti a queste indecenze, e ha determinato qualche difficoltà in più ad imprenditori – prenditori senza scrupoli, coperti da finte cooperative e associazioni.
È un mondo, quello del privato sociale in cui operano una parte cospicua degli educatori e dei pedagogisti, in cui le retribuzioni applicate possono essere in totale e plateale spregio della contrattazione collettiva.
Un mondo in cui, tra l’altro, si misura una grande disparità tra aree territoriali e tra settori nello stesso territorio. Nella mia città metropolitana di Napoli mi ha sempre lasciato stupito constatare come nella categoria di pedagogisti ed educatori coesistano condizioni molto diverse. C’è chi lavora in nidi privati per 350 € al mese. La motivazione di una retribuzione del genere è data sulla base del fatto che si tratta di un part time “e si lavora solo le mattine”. Salvo poi chiedere e scoprire che quel part time si attesta su di un orario che va dalle 8.00 alle 14 per 6 giorni la settimana. 36 ore settimanali. Per 300 euro o giù di lì. Questi nidi, che costituiscono la sede elettiva dello sfruttamento non sono di solito nemmeno cooperative, ma sono organizzati in genere in associazione, e non hanno convenzione con l’ente pubblico. In effetti sono nidi per modo di dire, perché non rispettando i requisiti strutturali ed organizzativi che le normative regionali prevedono non potrebbero essere autorizzati, ed in effetti operano in una tranquilla clandestinità, senza che nessuno gli vada ad obiettare alcunché.
L’altra disuguaglianza grave nella categoria è quella che si articola tra aree territoriali con retribuzioni medie in alcune regioni del Sud inferiori alla metà delle retribuzioni medie nelle regioni del Nord.
Nel capitolo ___ viene messo a disposizione uno studio sul lavoro di educatori e pedagogisti nel Paese che evidenzia in tutta la sua crudeltà questo fenomeno.
Del pagamento a cottimo sui turni effettivamente prestati ho detto. Ma c’è un aspetto sconcertante che schiaccia le retribuzioni medie e che non è legato tanto all’importo orario corrisposto quanto alla organizzazione del lavoro.
Un problema che coloro che lavorano nei servizi di educativa scolastica segnalano spessissimo è che il tempo degli spostamenti prevale su uello del lavoro sul posto di lavoro. Ad un operatore ad esempio, possono essere affidati due bambini o ragazzi, che si trovano a mezz’ora di distanza o più l’uno dall’altro. Tempo che naturalmente non viene retribuito. Capita anche che il ragazzo che è stato affidato non si presenti a scuola e che, no essendo la cooperativa retribuita per quel servizio, decida di non pagare l’educatore. Per poi garantirti che quelle ore potrai recuperarle in un secondo momento, e ovviamente ti verranno pagate se e quando le farai.
Pagare solo a cottimo sui giorni di presenza di fatto annulla alcuni istituti come la malattia, o i congedi, perché di norma, se nei giorni in cui avresti dovuto lavorare sei ammalato non vieni retribuito, salvo la possibilità di recuperare le ore di quel giorno in un’altra giornata. Succede così che il diritto alla malattia diventa una gentile cortesia che il tuo datore di lavoro ti fa consentendoti di non perdere la retribuzione di quelle giornate.
L’estate è l’apoteosi, perché subentra per tanti colleghi l’istituto della sospensione del contratto. Io ti ho assunto a tempo indeterminato ma d’estate una volta esaurite le ferie ti emetto delle buste paga a zero euro, e tu non prenti un centesimo
L’altro aspetto sconcertante è la pluralità dei contratti collettivi. Che senso ha che esista un contratto collettivo per le Misericordie o un contratto della diaconia Valdese? Perché non unificare i contratti dentro un contratto che accolga tutte le situazioni di terzo settore diverse dalla cooperazione sociale?
In questo quadro il mondo dell’educazione diventa il luogo dello sfruttamento, il luogo della sopraffazione. Un fatto che si consuma dnella più completo silenzio collettivo; eppure il trattamento dei lavoratori che si prendono cura degli adolescenti che hanno commesso reati e che vanno rieducati, dei bambini più piccoli, delle persone con disabilità, dei nostri figli che hanno bisogno di un metodo di studio – la parte più debole e la parte del futuro della nostra società – dovrebbero essere messi in condizione di operare con tranquillità. E invece accade che proprio a questi professionisti siano riservate le condizioni peggiori tra i professionisti. Accade che coloro che operano per i dimenticati, gli emarginati, i violentanti, gli incarcerati condividano con le persone per le quali lavorano la condizione di ultimi. Ultimi nella società gli uni, ultimi tra i professionisti gli altri.
1 thoughts on “Piccola storia di ordinario sfruttamento”